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L'occidente
tra Cina ed economia globale
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Abstract da pagg. 26-30 di
“ICT
Professional” (Maggio/Giugno 2004):
notiziario della Federazione delle Associazioni di Information Management ]
Dove
va il mondo e in particolare l'Italia ? Molti stanno cercando una risposta a
questo interrogativo, ma non è facile. Il rapporto 2004 della Fondazione Enaudi,
una ricerca effettuata per conto di Lazard e le relazioni fatte in occasione
della presentazione forniscono del "materiale" su cui riflettere.
L'analisi
evidenzia un processo di globalizzazione che rallenta e si trasforma,
posizionandosi su livelli qualitativi e quantitativi inferiori rispetto a
qualche anno fa. In generale, si nota meno mercato e più Stato: anche negli USA
l'economia è sostenuta sempre più dalla spesa pubblica. La globalizzazione è
"dimezzata" perchè mentre alcuni settori sono ancora globali (trasporti
aerei, finanza, sistemi ICT, ecc.) altri settori, soprattutto quelli dei beni di
consumo ed affini hanno la tendenza ad operare all'interno di macro-aree
piuttosto che aprirsi al globo. In questo senso ci troviamo in un mondo che sta
vivendo una fase di diversità rispetto al passato.
Le
principali conclusioni a cui è giunto il rapporto sono:
-
a
livello mondiale, la crescita cinese altera i tradizionali equilibri
economici. Quindi costituisce un importante fattore di novità e
disequilibrio con il quale dobbiamo confrontarci,
-
è
proseguito e si è rafforzato il trend (già rilevato dopo l'11 Settembre
2001) di un allontanamento dal modello di "libero mercato", inteso
come regolatore unico dell'attività economica mondiale, e di un ritorno
della prevalenza degli stati o dei pubblici poteri, talora in forme nuove.
-
giudizio
positivo sull'Unione Europea, anche se si registra qualche elemento di
incertezza soprattutto sul lato politico normativo.
-
debolezza
dell'Italia, che ha una marcia in meno anche rispetto all'Europa.
Esaminiamo
il peso economico di vari cluster di paesi sul prodotto lordo mondiale e
l'evoluzione 1985-2003. Queste quote dalla fine della guerra al 1985 sono
rimaste quasi costanti. Invece dal 1985 abbiamo delle modifiche sensibili. I
paesi ricchi perdono quota e passano dal 60% al 55% (valori reali corretti in
base al potere d'acquisto). La cosa sconvolgente è che la Cina, più l'India più
le Tigri asiatiche raddoppiano la propria quota sull'economia mondiale. Abbiamo
una modesta perdita dell'America-latina, mentre i paesi ex-socialisti perdono
significativamente dopo il crollo del socialismo reale. L'Africa sub-sahariana
è sempre più residuale passando dal 3,1% al 2,7% con una popolazione che è
incrementata sul totale mondiale.
Se
analizziamo i singoli paesi, notiamo che
-
gli
USA sono rimasti sostanzialmente invariati dal 22,9 al 22,3%
-
l'UE
è scesa dal 22,5 al 21,6 perdendo quasi un punto percentuale che non è
pochissimo
-
il
Giappone ha perso nettamente di quota (3 punti percentuali): la perdita
dell'area ricca si trova prevalentemente in Giappone.
-
La
Cina passa dal 4,8 al 12,1% quindi triplica il suo valore di mercato in 18
anni: un fenomeno di una violenza e di una rapidità sconvolgente.
-
l'India
passa dal 4,4 al 6,8%
-
le
Tigri asiatiche dal 3,6 al 5,1.
Cina
Siamo in presenza della più
straordinaria trasformazione economica che gli economisti viventi abbiano visto
e nella storia non troviamo nulla che gli assomigli. Con questo aumento del PIL
la Cina supera il Giappone e diviene la terza economia del mondo. In questi due
anni (soprattutto negli ultimi 18 mesi) è come se avesse fatto un salto
quantico, posizionandosi in un'altra dimensione. Questa evoluzione va
metabolizzata molto bene perchè l'Italia e l'Europa si salveranno e torneranno
a crescere solo se sapranno capire a fondo questo fenomeno.
La
Cina non ha ancora esaurito le sue potenzialità: vi sono 500milioni di
contadini, mentre in tutto il mondo occidentale non vi sono 500milioni di
lavoratori. Quindi, la Cina ha il potenziale per raddoppiare la crescita
mondiale ammesso che non ci siano vincoli ambientali o di altra natura: è
sufficiente trasformare i contadini in lavoratori dell'industria e dei servizi.
Uno studio recente ha previsto nei prossimi 20 anni una migrazione interna dalle
campagne alle città di 275milioni di persone. Questo è un elemento di
instabilità, siamo solo a metà della transizione e non dobbiamo commettere
l'errore di pensare che il costo del lavoro in Cina aumenterà facilmente:
possono ancora attingere ad una riserva immensa di manodopera. Questi sono i
problemi con cui dobbiamo confrontarci.
Se
poi andiamo ad analizzare la dimensione industriale della Cina, notiamo che è
il maggior produttore di acciaio, cemento e biciclette, ma anche di radio e
televisori. La Cina produce quasi la metà di tutti i televisori del mondo ed è
il maggior mercato di telefoni cellulari: le ultime notizie parlano di 7milioni
di nuovi collegamenti al mese. Se la dottrina di Mao parlava di 4 lussi (bicicletta,
radio, orologio, macchina per cucire) oggi si parla di 7 lussi (televisore, DVD,
frigorifero, lavatrice, macchina fotografica, PC, telefono cellulare). Questa
dimensione economica della Cina si accompagna anche a una proiezione mondiale:
è diventata una potenza spaziale, sta sviluppando tecnologie autonome in campo
informatico e bellico. Cina, Giappone e Malaysia hanno stipulato nel 2003 un
accordo per sviluppare uno standard informatico alternativo a Microsoft: in
pratica, sviluppare qualcosa di asiatico ed affrancare l'Asia da Microsoft senza
adottare Linux.
Le
esportazioni cinesi sono aumentate nel 2003 di oltre il 30%. Interessante da
analizzare è anche l'interscambio tra Giappone, Cina e USA: l'export giapponese
verso la Cina è in notevole e costante aumento soprattutto dal 2001 ed ha
superato quello verso gli USA che ristagna. Si noti che la globalizzazione
tradizionale aveva come asse portante l'integrazione produttiva tra Giappone e
USA. Un esempio è il fatto che gli americani avevano dismesso o ridotto
sensibilmente la produzione di prodotti storici come materiale ferroviario,
elettrodomestici, auto. Allo stesso modo i Giapponesi si erano astenuti
dall'industria farmaceutica e da quella bellica. Su questa base si era creata
l'idea di un mondo che poteva integrarsi al di là di differenze culturali,
religiose, politiche. Ora constatiamo, invece, che il Giappone torna sui propri
passi e tende ad integrarsi con la nuova Cina: grazie a ciò sta uscendo da una
fase di stagnazione decennale. Questo è uno sconvolgimento dell'ordine mondiale
di grande rilevanza, che scardina gli equilibri preesistenti, e non sappiamo
ancora quando e come si fermerà.
Le
riserve valutarie cinesi erano costanti intorno a 250 miliardi di US$, dal 2000
al 2003 sono raddoppiati a 500 miliardi di US$. Queste riserve vengono investite
in strumenti di debito pubblico dei paesi occidentali, in particolare USA e
Italia: la Cina attua un'attenta politica di diversificazione tra euro e dollaro
ed il debito pubblico italiano è importante ai fini di tale strategia. I cinesi
detengono una quota non trascurabile del nostro debito pubblico e senza l'aiuto
della Cina l'Italia non sarebbe riuscita a mantenere a livelli così bassi i
tassi ai quali il Tesoro si finanzia. E' chiaro che questo fornisce ai cinesi
uno strumento di pressione quando si parla di politiche commerciali
internazionali.
In
pratica, si sta formando un'isola cinese che si stacca dall'isola Asia.
Naturalmente tutto ciò pone dei problemi nuovi a cui non dedichiamo ancora
tutta l'attenzione necessaria. La Cina non è un normale membro della WTO: si
tratta di una potenza così importante che il suo ingresso sta influenzando
l'evoluzione della WTO nel suo complesso. Non si può pensare di continuare ad
usare ed imporre le stesse regole che valevano in passato, ma è necessario
ripensare e modificare l'intero meccanismo del commercio..
U.S.A.
Deaglio definisce il trend americano "una ripresa che non convince":
sono ormai 12 mesi caratterizzati dal susseguirsi di indicatori buoni e meno
buoni. La ripresa si intravede nelle cifre aggregate del PIL e nei risultati
soddisfacenti delle imprese, ma non in termini di occupazione e relativamente
poco in termini di consumo. La produzione industriale ha raggiunto il suo max
nel 2000 e poi ha avuto una lunga caduta fino al Dic. 2001: in occasione degli
attentati di Settembre, l'economia era già in recessione. Nel 2002 vi è stata
una ripresa che è durata poco, seguita da comportamenti incerti e in autunno
2003 da una nuova fase di ripresa che si spera continui anche nel 2004. Se
andiamo a vedere le cifre, ad esempio le vendite di auto, notiamo che sono
ancora inferiori ai massimi. Oltre a ciò l'economia americana presenta tre
deficit:
-
quello
pubblico che è cresciuto fortemente nel corso degli ultimi due anni,
soprattutto grazie alle spese militari e dal quale ci si aspettava un'azione
di stimolo che forse c'è stata (nel senso che ha tenuto a galla l'economia)
ma non ha prodotto una funzione veramente propulsiva;
-
quello
delle imprese che si sostengono sui debiti da molto tempo, da quando si è
praticata una politica di denaro a costo molto basso;
-
quello
delle famiglie che sono fortemente indebitate. Il segnale più inquietante
di questi ultimi mesi è che i debiti familiari mediante carte di credito è
ai massimi storici, con un forte incremento nell'ultimo periodo.
Da
ciò si comprende come l'idea di un aumento anche minimo del costo del denaro
possa causare una certa destabilizzazione su questa economia fortemente
indebitata. Questo spiega anche perchè le borse, al semplice aumento del prezzo
della benzina alle pompe, vedono un futuro caratterizzato da un'inevitabile
restrizione monetaria e reagiscono sempre male, anche se i dati di bilancio
delle imprese e quelli dell'economia non sono tanto negativi.
Consideriamo
anche l'edilizia che è uno dei meccanismi che regola l'economia dopo le spese
militari: purtroppo i bassi tassi di interesse hanno già spinto questo mercato
ai massimi storici e, pertanto, è difficile pensare che possa continuare su
questi livelli.
I
limiti degli USA sono differenziati.
-
La
politica del deficit di bilancio per rilanciare l'economia è difficile da
sostenere quando si fa la guerra al terrorismo. Vi è una fondamentale
contraddizione tra il pensare ad un'economia di guerra (al male, al terrore)
e pensare che i consumi possano essere quelli di un'economia di pace.
-
La
stessa formula "guerra al terrorismo" implica che ci sia un unico
nemico globale e questo è alquanto discutibile.
-
sulla
base di questo nemico globale si è effettuata una compressione dei diritti
civili sui quali si basa il contratto sociale della nuova America
multietnica. Pertanto, andando a limare i diritti civili gli USA rischiano
di mettersi su un terreno alquanto pericoloso.
-
Infine,
la politica estera americana è indebolita dalla contraddizione di volere
esportare la democrazia con metodi che non sono democratici...
Europa
Il giudizio sull' Europa è più problematico del solito. Secondo Deaglio la
visione è ancora positiva, ma con alcune cautele: l'Europa si trova tra
successi e problemi. Vediamo i successi: innanzitutto l'Euro che ha tenuto i
paesi aderenti al riparo da sconquassi valutari e seri rischi di inflazione. Se
paragoniamo la pressione inflazionistica negli USA con quella europea, notiamo
che l'Euro è riuscito a limitarne i danni, nonostante esistano ancora dei
meccanismi interni (ad alcuni singoli stati e soprattutto all'Italia) di
inflazione che gli americani non hanno. A parte le critiche circa l'aumento dei
prezzi al consumo, forse dotate anche di qualche fondamento, senza l'ombrello
dell'Euro nè la Lira nè le altre monete più forti avrebbero resistito a
sconquassi esterni. In assenza di altre idee forti che mancano in campo europeo,
l'Euro rappresenta un simbolo di identità ed è una valida alternativa al
dollaro: vale molto più di quell'esercito che l'Europa non ha.
Ricordiamo
anche gli altri successi di quest'anno: l'apertura all'est, la riforma
dell'antitrust, l'accordo sulla tassazione del risparmio dei non residenti, un
confronto commerciale con gli USA (per difendere insieme gli interessi
commerciali facendo massa), grandi progetti infrastrutturali comuni.
Il
problema principale è di natura internazionale: l'Europa si sta formando senza
chiarire bene se la propria posizione è alternativa agli USA o collaborativa.
Al momento sembra che nessuno voglia chiarirlo: se guardiamo alle cifre del
commercio tra UE e USA notiamo che non è più come una volta, ma gli USA
rimangono sempre i parenti più prossimi che l'Europa ha in un mondo che cambia
rapidamente.
Per
passare a problemi ancora più concreti, vi è il ruolo della Banca Centrale e
la sua indipendenza. Inoltre, un interrogativo molto importante è come far
ripartire l'economia. Secondo Deaglio gli stimoli espansivi non arriveranno
tanto dagli USA, quanto piuttosto dall'interno e dall'apertura all'est. In
pratica, le sinergie derivanti dal processo di integrazione dei nuovi stati
membri faciliteranno la crescita dell'economia europea.
Infine,
l'Europa è caratterizzata da una popolazione di anziani e quindi è molto
importante definire le politiche di immigrazione e di pensionamento. Facendo una
proiezione a trenta anni emerge che l'Europa sarà piccola rispetto al quadro
mondiale: in questo scenario l'alternativa è tra essere "piccoli e
irrilevanti" o "piccoli e punto di riferimento". Naturalmente,
l'Europa dovrà puntare alla seconda alternativa, ma raggiungere questo
obiettivo non sarà semplice e saranno necessarie molte e importanti iniziative
anche intellettuali.
Italia
L'andamento qualitativo del PIL, artificialmente reso pari a 100 per tutti i
cluster nel 1985, ha nel caso dell'Italia una crescita inferiore a quella degli
altri paesi ad alto reddito, soprattutto dal 1997 in avanti. Per trovare le
cause analizziamo la produzione industriale italiana: dal 1985 al 1987 il
differenziale rispetto all'OCSE è positivo e in crescita, riesce anche a
compensare la debolezza di altri settori dell'economia; poi nel periodo
1987-1997 questo vantaggio diminuisce lentamente fino a scomparire; dal 1997 in
avanti diventa negativo ed aumenta rapidamente. In conclusione, dal 1997
emergono problemi nel settore industriale che sono ancora da affrontare e
risolvere.
Confrontando
la struttura dell'industria italiana con quella media dei primi 5 paesi
industrializzati europei, notiamo che tra questi paesi l'Italia è quello più
sbilanciato in quanto ha dei settori che sono molto sopra la media ed altri
molto sotto. L'Italia è forte (sbilanciata al di sopra della media) nei settori
tradizionali ad alta intensità di manodopera poco specializzata (tessile,
abbigliamento, mobili, macchinari vari, ecc.), mentre è debole nei settori di
avanguardia, ad alta tecnologia e/o che richiedono manodopera specializzata (mezzi
di trasporto, macchine elettriche, strumenti di precisione, chimica, ecc.). In
molti settori questo sbilanciamento è aumentato dal 1995 al 2000, cioè negli
anni in cui è esplosa la crisi. Questa specializzazione produttiva e di
commercio internazionale non è certo quella tipica di un paese industrializzato,
che ha punti di forza nei settori ad alta intensità di lavoro qualificato e/o
high-tech.
Pertanto,
la prima causa della crisi è che l'industria italiana ha continuato a
posizionarsi in settori che subiscono la forte concorrenza dei paesi emergenti
con manodopera a basso costo.
Se
analizziamo i fattori produttivi, emergono 5 debolezze che costituiscono dei
vincoli gravi per la ripresa dell'Italia:
-
elettricità
ed energia, sia come prezzo sia come qualità di erogazione;
-
trasporti
che sono più cari, più lenti e meno affidabili;
-
scolarizzazione
che risulta ancora inferiore a quella degli altri paesi mentre ha un peso
enorme in questi tempi dominati dall'informatica;
-
ricerca
scientifica, un settore totalmente da reinventare;
-
tempi
necessari per prendere decisioni, troppo lunghi sia ai livelli più alti del
governo sia a quelli delle amministrazioni locali.
L'invito
alla classe dirigente (politici, imprenditori, ecc.) è di prendere atto di
questo scenario, senza usare paraocchi o filtri, per poi decidere quale sviluppo
dovrà avere l'Italia economica (regole, settori produttivi, ecc.) e che ruolo
dovrà avere nel mondo tra 15 anni. Altri paesi (Francia, Germania, ecc.) stanno
già decidendo e pianificando il loro sviluppo economico futuro in ambito
mondiale. L'Italia non ha ancora affrontato questo problema: sono ancora da
decidere sia gli obiettivi (ad esempio: contare nel settore del turismo, cercare
di rivitalizzare i settori tradizionali sotto pressione cinese, ecc.) sia come
raggiungerli. In realtà, si può affermare che dal 1870 in vanti l'Italia non
ha mai deciso e pianificato il proprio futuro in maniera proattiva: ha sempre e
solo occupato gli spazi lasciati liberi dagli altri.
In
conclusione
Lo scenario italiano è caratterizzato da una consistente diminuzione del peso
delle grandi aziende "ancora" controllate da interessi italiani, dalla
scomparsa di alcune imprese di lunga tradizione e leadership (Olivetti,
Montedison, ecc.), oltre che da una difficile ed ancora troppo "rara"
crescita dimensionale delle PMI. Le grandi imprese pubbliche, che sono state per
decenni protagoniste dell'economia, sono state dismesse senza che gli
imprenditori privati fossero in grado di sostituirsi nel ruolo da esse svolto:
anche ciò ha favorito la dissoluzione della grande impresa in Italia e
l'aggravarsi della debolezza nei settori di avanguardia.
Come conseguenza, le grandi scuole d'impresa che hanno allevato generazioni di
manager, in ambito sia privato (es. Olivetti) sia pubblico (es. IRI), sono
scomparse.
Altri paesi europei si sono comportati in maniera diversa, evitando di
privatizzare a tutti i costi e quando lo hanno fatto hanno sempre mantenuto
forme efficaci di controllo.
Inoltre,
solo pochi hanno compreso che la crisi è più strutturale che congiunturale. Il
cambiamento strutturale è incominciato negli USA attraverso lo sviluppo della
tecnologia dell'informazione (circa 30% degli investimenti totali vs 17% in
Europa). Un altro cambiamento strutturale non percepito completamente è quello
relativo alla Cina che esporta prodotti competitivi con i nostri ed è anche
dotata di tecnologie avanzate. Grazie al traino dell'economia cinese, le Tigri
asiatiche hanno superato la crisi di fine anni '90 e il Giappone sta uscendo da
una stagnazione decennale. L'Europa, presa dai problemi interni e dalle
divisioni tra i paesi membri, ha creato una moneta unica ma non è ancora
riuscita a creare un'unione politica ed economica, capace di essere competitiva
a livello globale.
I
singoli paesi europei (soprattutto l'Italia) non hanno saputo realizzare quanto
era necessario per sfruttare i cambiamenti strutturali in atto e produrre
ricchezza. Tutti i paesi europei cercano di effettuare delle riforme (aumento
ore lavoro annue, riduzione livello burocrazia, ecc.) per adattarsi ai nuovi
scenari, ma spesso le mediazioni le svuotano di significato e non sempre i tempi
di realizzazione sono rapidi: tutto ciò sminuisce la loro efficacia.
In
Italia la percezione dell'urgenza è sommersa da problemi quotidiani settoriali
(politici, sindacali, aziendali, ecc.) che assorbono totalmente l'attenzione.
Questo non può che produrre sfiducia. Invece, ci vorrebbe maggiore coesione tra
i diversi attori (politici, sindacati, imprenditori, dipendenti, banche,
professionisti) che dovrebbero guardare al proprio interno, analizzare
criticamente il passato e il presente, per poi superare gli interessi
corporativi e collaborare fattivamente per il rilancio del Sistema Italia.
In
particolare, affinchè l'Italia recuperi la capacità di intraprendere, è
necessario che gli imprenditori
-
riacquistino
il gusto di rischiare ed investire, anche in R&S (innovazione di
prodotto e di processo) e in Risorse Umane (incremento della cultura
aziendale)
-
sviluppino
strategie "nuove" più competitive e, soprattutto,
-
abbiano
il coraggio di anticipare i cambiamenti del mercato.
Oscar
Pallme
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www.pallme.com
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