www.pallme.com |
|
Collaborare:
per la nuova catena del valore
[ Abstract da pag. 54-57 di “ZeroUno”
(Marzo 2003) ]
Tutti
si dichiarano disposti a realizzare supply chain basate sulla
collaborazione, ma pochi lo fanno. Il problema non sta tanto nelle
tecnologie, ancora complesse ma sulle quali si sta intensamente
lavorando, quanto nel fatto che esistono livelli d'informazione che le
imprese sono restie a mettere in comune, anche a scapito di un guadagno
di efficienza e di competitività.
Della
necessità di collaborazione sulla supply chain si parla così
frequentemente che il concetto rischia quasi di svuotarsi del suo
significato. Vediamo allora di scendere un gradino sotto la superficie
delle parole per cercare di mettere meglio a fuoco l'argomento. Tanto
per cominciare, restringiamo il campo della nostra analisi al rapporto
tra il produttore e i suoi fornitori, lasciando ad un'altra occasione
l'esame dei processi tra produttore e cliente-utente finale, che
anch'essi possono essere più o meno collaborativi. In quest'ambito
cercheremo di individuare dove, come e tra chi si può realizzare un
rapporto di collaborazione e quali benefici se ne possono trarre. Infine,
cerchiamo di capire se tutto ciò è ancora nel campo delle teorie o se,
e come, si è tradotto in realizzazioni pratiche.
Su
questi argomenti abbiamo ascoltato il professor Alessandro Perego, del
Dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano, con il
quale cerchiamo di inquadrare gli estremi del problema. "Di supply
chain si parla tanto; un po' meno si sa e assai poco se ne fa",
esordisce Perego, che, aiutandosi con il diagramma di figura l, spiega:
"Con 'Supply Chain Collaboration' si intendono tutti i
progetti volti alla gestione dei processi operativi con i partner
strategici di filiera, dai fornitori, ai contract manufacturer (i
produttori su licenza, ndr), ai trasportatori, ai clienti e così via.
Questi processi possono essere di execution quando riguardano la
gestione dell'ordine, dei magazzini o dei trasporti, oppure di planning,
quando riguardano la previsione della domanda, la gestione delle scorte,
la pianificazione della produzione e degli approvvigionamenti".
Tutti lo dicono, ma pochi lo fanno
Detto così, parrebbe ovvio che sulla filiera si debba collaborare,
visto che si tratta di una catena in cui tutti hanno da guadagnare dal
reciproco aiuto. Ma le cose in pratica non stanno così. Perego ha
cercato in tutta Italia casi pratici di realizzazione, ma ne ha trovati
assai pochi. O meglio: sono rari i casi dove si sia andati oltre a mere
dichiarazioni di intenti e si sia inciso sui processi.
Eppure, le rigidità operative e i costi causati da mancanza di
collaborazione sono sotto gli occhi di tutti. Per cominciare, infatti,
crescono i costi della gestione delle cosiddette ‘attività
d’interfaccia’ relative all’area acquisti, commerciale, logistica
e ai servizi ai clienti. Poi vi è l’aumento delle scorte ad ogni fase
del processo produttivo, che anche se fa crescere il capitale circolante
è l’unica leva per ottenere la necessaria flessibilità operativa a
fronte di una pianificazione rigidamente frammentata lungo i passi del
processo.
E ancora: le risorse operative e di magazzino vengono volontariamente
sotto utilizzate (e anche questo è un costo) per poter far fronte a
imprevisti ma inevitabili picchi di richiesta. Infine, può accadere di
non poter avere la merce dove e quando richiesta dal cliente, con
rischio di perdita di ordini, clienti e quote di mercato.
A fronte di queste considerazioni, le aree dove la collaborazione
potrebbe potenzialmente portare benefici, precisa Perego, sono
essenzialmente tre, con un livello di collaborazione crescente. La prima
è l’automazione dei processi operativi. Si tratta di realizzare la
gestione elettronica dei documenti con tecniche di workflow per tutti
quei processi che interessano più aziende e che implicano lo scambio
frequente di dati e informazioni strutturate, ossia di documenti come
ordini, fatture, cataloghi, listini, piani revisionali o distributivi,
dati tecnici sui prodotti, normative e così via. Questa trasmissione
automatica evita la ridigitazione di documenti trasmessi in formato
cartaceo, con guadagni di tempo, denaro e minori errori.
Con il livello successivo di collaborazione, che Perego chiama
‘integrazione informativa’, vengono fornite informazioni che
permettono di aumentare la visibilità dei processi sulla filiera, in
modo che gli operatori possano fare meglio i propri piani. Esempi di
queste informazioni sono i dati di vendita, i piani revisionali, i piani
di ri-approvvigionamento, l’entità delle scorte, i piani di
produzione, la disponibilità di capacità produttiva. Da un punto di
vista tecnologico, questo livello di collaborazione non è diverso dal
primo: si tratta sempre di scambiare informazioni. Molto diverso è
invece il livello delle informazioni scambiate: comunicare piani di
produzione e capacità produttive significa giocare a carte scoperte,
cosa che non tutti e non sempre sono disposti a fare. E difatti è qui
che spesso si interrompe il processo di apertura reciproca tra le
aziende, impedendo il passaggio al livello successivo, il terzo, che
realizza il vero cambio di marcia.
Il terzo livello è infatti quello della integrazione dei processi: qui
si realizza pienamente la collaborazione in quanto le informazioni non
sono utilizzate separatamente, ai fini individuali dei partner, ma
vengono condivise a beneficio dell’intera comunità. Si prendono
decisione in comune e si realizzano processi integrati come il Vmi
(Vendor Managed Inventory), dove è il fornitore che si fa carico in
totale autonomia di gestire il livello delle scorte, o il Cpfr
(Collaborative Planning, Forecasting and Replenishment), così
importante negli ambienti retail e grande distribuzione. Per inciso,
agli informatici interesserà sapere che in quest’area opera dal 1998
RosettaNet (www.rosettanet.org), un’organizzazione senza fini di lucro
cui partecipano oltre 400 aziende di It, elettronica e semiconduttori,
con l’obiettivo di creare e promuovere l’utilizzo di processi
standard di e-business.
«Solo se si arriva al terzo livello si ottengono sensibili benefici»,
ribadisce Perego. Infatti l’integrazione dei processi operativi riduce
i costi e migliora il livello di servizio, ma incide poco sul livello
delle scorte e sull’utilizzo della capacità operativa, cosa che
invece si realizza al secondo livello, quello dell’integrazione
informativa, dove migliora anche il livello di servizio. Ma il
miglioramento decisivo di questi parametri si ha al terzo livello,
quando si realizza l’integrazione dei processi collaborativi, che non
ha tanto effetto sui costi operativi, che pure diminuiscono, quanto
appunto nel livello di servizio, nella riduzione delle scorte e nel
miglior impiego della capacità operativa.
Detto così sembrerebbe tutto chiaro: basta collaborare (e cosa ci
vuole?) e tutto andrà per il meglio. Ma le cose non stanno proprio così.
Come ricorda Perego: «Di casi di impatto della Supply Chain
Collaboration sui processi ne ho visti pochi, anche se li ho cercati in
tutta Italia». La ragione di questo scostamento tra il dire e il fare
la possiamo riassumere in quattro punti.
Perché si collabora poco
Il primo riguarda la tecnologia. Al vecchio Edi si sono affiancate molte
nuove soluzioni collaborative e di e-business, come il Web Edi,
l’integrazione dei processi business-to-business, le extranet e i
Private Hub, i marketplace. Quanto ai pacchetti applicativi sono molte
le soluzioni di Supply chain management sul mercato. Ma sul fronte degli
utenti, competenza e capacità esecutiva spesso fanno difetto e sono
numerosi i casi di soluzioni acquistate e non implementate, situazione
tipica dei processi decisi su considerazioni puramente tecnologiche. «Viceversa
– aggiunge Perego – molti dei progetti implementati con successo non
si basano su soluzioni particolarmente complesse dal punto di vista
della tecnologia».
Il secondo punto riguarda l’approccio culturale. In molti settori la
relazione cliente-fornitore è ancora di tipo conflittuale, il che
preclude all’instaurazione di un clima collaborativo. Ognuno è geloso
delle proprie cose ed è disposto a condividere ben poco con gli altri
partner. Qui le cose però stanno cambiando e ne è un segnale positivo
il progetto Ecr Italia (www.ecr.it/ecr/ default.asp) nato nel 1993 e che,
come recita lo statuto, è: «una Associazione paritetica fra Imprese
industriali e Imprese distributive avente per scopo lo studio, la
diffusione e l’applicazione di strumenti di raccordo fra le stesse,
con particolare riguardo al potenziamento dell’efficienza dei rapporti
fra i due comparti e dell’intero ciclo
Produzione-Distribuzione-Consumo e di quanto altro sia ritenuto aderente
allo scopo associativo da parte degli Organismi della Associazione». Un
altro esempio è OptoIDX, (www.optoidx. com/index) , il business
information exchange per l’industria bellunese dell’occhiale, o
TextileBusiness (www. textilebusiness.it), marketplace italiano dedicato
alle imprese che aderiscono al Sistema Tessile. Anche sul fronte privato
si comincia a vedere qualche progetto notevole e le competenze in area
supply chain stanno crescendo.
E se collaborare fosse un rischio?
Il terzo ostacolo alla collaborazione riguarda la capacità esecutiva.
Nelle filiere con a capo un Oem forte, leader del proprio settore, il
problema non si pone. Analogamente, le cose vanno bene anche quando la
leadership è esercitata da un’associazione o nel caso di progetti
interni nati dalla volontà politica di cambiare. Ma in tutti gli altri
casi è difficile trovare chi decide, chi fa la prima mossa o dà
l’esempio infrangendo pratiche di business tradizionali.
Quarto e ultimo punto: gli standard. Qui i passi avanti fatti negli
ultimi tempi sono notevoli, ma sono per lo più limitati alla
messaggistica e alla classificazione e codifica dei prodotti. «Peccato
poi – commenta Perego – che siano in parte sovrapposti, quasi mai
interoperabili e comunque raramente utilizzati».
Riassumendo. Collaborare sulla supply chain a priori conviene, ma
comporta investimenti in tecnologia, la condivisione di standard e un
cambiamento di attitudine nei rapporti tra partner. Se la soluzione del
primo punto può venire dai software vendor (che in effetti, come
vedremo, si sono mossi già da tempo) e se il processo di
standardizzazione è già avanzato in molti processi, un punto di
domanda rimane l’attitudine all’apertura. E non solo per tradizione
o diffidenza dovuta a scarsa cultura industriale: come si è già spesso
potuto verificare, non è un atteggiamento che si può pensare sarà
superato con la presa del potere aziendale da parte delle nuove
generazioni.
Sarà conveniente non collaborare?
Un punto veramente critico, almeno a nostro avviso, è che lo scenario
competitivo globalizzato porta sempre più alla ‘coopetition’, con
la nascita di figure ibride di partner/concorrenti. E chi se la sente, a
questo punto, di condividere i propri piani industriali con un fornitore
che potrebbe un domani (o magari già oggi) servire un’azienda
concorrente o entrare egli stesso sul nostro mercato? Forse si tratta
solo di eccessive cautele e il vantaggio competitivo di tutti i membri
della supply chain si difenderà sempre meno con la riservatezza e
sempre più grazie al valore aggiunto. Se un fornitore garantisce un
vero valore aggiunto non c’è Oem che sia disposto a mettere in gioco
un rapporto profittesvole per il gusto di tenersi qualche grado di
libertà nella sua di strategia di fornitura. D’altra parte, la
crescente diffusione di pratiche collaborativenell’ambiente
industriale anglosassone rappresenta un segnale forte della direzione in
cui prima o poi anche noi europei e italiani dovremmo necessariamente
muovere.
Luciano Barelli
[ Top ] |